Quello che si dona con amore non costa sacrificio nè aspetta ricompensa
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    Lavoro e partecipazione alle imprese

    di Lorenzo Zoppoli

    E' nata a Napoli una nuova Fondazione, intitolata a Giovanni e Lucia Di Trapani, diretta soprattutto a ricordare e rinnovare l' impegno sociale di questi due lavoratori e, in particolare, l' impegno del primo nel movimento operaio e socialista napoletano. L' esordio è stato di grande interesse: un incontro di studi dal titolo "Il lavoro tra conflitto e partecipazione", promosso qualche giorno fa.

    Promosso con lo scopo di rivisitare un' esperienza ignota ai più e poco studiata sinora, come quella dei Consigli di gestione a Napoli e in Campania. Questa esperienza si sviluppò essenzialmente tra la fine del 1946 e il 1948, in leggero ritardo rispetto alla più nota ed incisiva esperienza settentrionale (il Consiglio di gestione della Fiat di Torino era già attivo all' inizio del 1946) e con una più limitata estensione (25 imprese in tutta la Campania rispetto alle 500 del resto d' Italia: i dati sono stati forniti da Giovanni Di Trapani jr., giovane ricercatore di economia, che per l' occasione ha rovistato con successo tra documenti sindacali e giornali dell' epoca alla ricerca delle imprese del nonno); ma fu caratterizzata dalle medesima passione e da un orizzonte non dissimile: avviare cioè una ricostruzione post-bellica che coniugasse ripresa economica e nuove soggettività politico-sindacali, promuovendo un radicamento nei luoghi di lavoro delle organizzazioni collettive dei lavoratori, animate però più dalla spinta politica che da una visione innovativa dell' impresa come "istituzione" di mercato.

    Piero Craveri, introducendo il seminario, ha ricordato come questa seconda prospettiva sia stata sostanzialmente estranea a tutta l' esperienza sindacale italiana, refrattaria a sperimentare davvero percorsi partecipativi assimilabili a quelli che, per tante complesse ragioni, altri paesi europei avviavano insieme alla ricostruzione dell' economia (la cogestione tedesca nacque più o meno in quegli anni). E ne ha anche (ri)proposto una spiegazione di ampio respiro: la prevalenza nel nostro paese di quelle correnti di pensiero socialiste impegnate ad agire sulla distribuzione della ricchezza piuttosto che sulle sue modalità di produzione e l' oggettiva subalternità alla cultura rivendicativa incentrata sul conflitto e sulla contrattazione collettiva che ha dominato la stagione d' oro del sindacalismo italiano.

    Mario Rusciano - che coordinava vivacemente il dibattito - ha ricordato a Craveri le responsabilità del fronte imprenditoriale italiano che, con alcune splendide eccezioni (l' Olivetti negli anni ' 50 e ' 60 e la Zanussi negli anni '90), non ha mai mostrato disponibilità verso prospettive partecipative assimilabili a quelle tedesche. La storia però è andata in un certo modo; e la ricerca delle responsabilità, pure interessante sotto il profilo culturale, non solo non vale a cambiarla, ma non aiuta oggi, a mio parere, neanche a far nascere un futuro diverso. Questa impressione si è avuta da un altro originale segmento dell' incontro promosso dalla nuova Fondazione, incentrato sul dialogo tra generazioni, rappresentate, da un lato, da alcuni "grandi vecchi" del sindacalismo napoletano di sinistra e di destra (Antonio Caldoro, Pietro Lezzi, Domenico Manna) e, dall' altro, da giovani studiosi delle relazioni di lavoro.
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    Da questo dialogo è emerso che la prospettiva partecipativa non solo era estranea alle ideologie sindacali italiane del dopoguerra - e a quelle germinate successivamente - ma che i principi e i valori del sindacalismo italiano non erano affatto coerenti con una partecipazione alla gestione delle imprese priva di immediata valenza politica. Come se le fabbriche non potessero essere altro che lo specchio o la culla dei rapporti di potere proiettati nel sistema politico. E, in fondo, anche le poche ed asfittiche esperienze partecipative sperimentate in Italia, soprattutto negli anni ' 80 nelle imprese a forte presenza pubblica già piuttosto malandate, possono ben essere viste come figlie di una determinata fase politica, caratterizzata dalla ricerca spasmodica di un governo concertato dell' economia. Insomma la partecipazione sindacale italiana è sempre stata, nel bene e nel male, soprattutto una faccia delle dinamiche politiche, che non ha mai interessato veramente i meccanismi di funzionamento dell' impresa su mercati competitivi. Si arriva così all' attualità e a quella strana impressione di trovarsi in un scenario sociale inedito, nel quale il lavoro, in tutte le sue "forme ed applicazioni" (articolo 35 della Costituzione italiana) e sotto ogni latitudine (in Italia come in Europa, negli Stati Uniti come in Cina), pesa sempre meno a livello politico, ritorna agli anni '60 nella ripartizione della ricchezza (uno studio della Banca dei regolamenti internazionali di un anno fa rilevava come la quota di Pil che va al lavoro in Italia è sceso di ben 8 punti percentuali dal 1983 al 2005) e vede ridurre progressivamente tutele che parevano granitiche (si pensi all' elevazione dell' orario di lavoro, che una recente proposta europea fa arrivare a 65 ore settimanali).

    In questa situazione è fin troppo evidente che ci si debba porre il problema di come riequilibrare i rapporti di potere tra capitale e lavoro, rivisitando modelli e pensandone di nuovi. Non stupisce allora che si torni a parlare di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, a destra (lo fa il nuovo Governo) come a sinistra (il tema è stato toccato dalla recente conferenza di organizzazione nazionale della Cgil). C' è però da augurarsi che lo si faccia recuperando valori e principi di tutela del lavoro senza strumentalismi contingenti e senza ricorrere ad armamentari ideologici non più attuali perché non riferibili al livello al quale oggi si pone il cuore della questione. è infatti abbastanza evidente che rilanciare una frontiera partecipativa nelle relazioni industriali è oggi vitale per riequilibrare i rapporti di potere: ma non tanto tra i soggetti sociali nazionali o locali, bensì tra le grandi imprese multinazionali e gli Stati nazionali o le unioni di Stati (come l' Unione europea). è una partita gigantesca, di cui la tutela collettiva del lavoro è una parte. Ma il lavoro dipendente non è affatto solo a soffrire, perché è sempre più chiaro che le dinamiche dell' economia mondiale e le loro ripercussioni sociali non sono né decise né governate dai singoli Stati.

    L' economia si è finanziarizzata e la grande impresa tende a rendersi "irresponsabile", perdendo però progressivamente la sua legittimazione sociale (come ci raccontano recenti libri di autori che non sono pericolosi rivoluzionari: vedi Ruffolo, Il capitalismo ha i secoli contati, Einaudi, 2008, e Gallino, L' impresa irresponsabile, Einaudi, 2005). In questo quadro il lavoro appare "disarmato", in quanto non riesce autonomamente a farsi valere neanche per rilanciare percorsi di partecipazione assai blanda. Emblematica è la difficoltà di rendere un po' più stringente i diritti di informazione e consultazione, che una direttiva europea del 1994 riconosce ai Comitati aziendali europei, organismi di rappresentanza dei lavoratori proprio nelle imprese transnazionali europee con più di 1000 dipendenti. A questa revisione si oppone Business Europe, cioè la Confindustria europea, che proprio nei giorni scorsi si è rifiutata di giungere ad una possibile soluzione negoziale che la Confederazione europea dei sindacati sarebbe stata ben lieta di raggiungere. Dinanzi a queste chiusure non si intravedono nuovi modelli di relazioni sindacali, ma solo un difficile ritorno al conflitto oppure la richiesta pressante alle istituzioni politiche - e soprattutto a quelle europee, alla ricerca di un rinnovato consenso dei popoli - di tornare ad affiancare i cittadini più deboli: che, purtroppo, ancora una volta coincidono con i lavoratori, destinati a superare per primi, in una terribile corsa al ribasso, le differenze di nazionalità.

    Tratto da La Repubblica